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a cura di Nicola Picchione  
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Il Maiale


Bozzetto

           
            L’ allevamento del maiale era molto diffuso a Bonefro: era fonte importante di alimentazione, soprattutto proteica e calorica. Anche chi non lo allevava ne comprava metà  per le provviste di salami e di grasso.
Il maiale veniva tenuto in genere in un piccolo porcile adiacente la casa ( a roll’ ), spesso ricavato nel sottoscala quando le scale erano esterne.
            L’uccisione del maiale e la preparazione delle sue carni era un rito, ancora vivo nella memoria degli anziani. Di solito avveniva poco dopo le feste di Natale quando l’aria era fredda e asciutta. Quasi ogni giorno risuonavano nelle strade gli urli dei maiali. Il rito contemplava due fasi: il giorno dell’uccisione del maiale e quello della preparazione delle sue carni, dopo che la carcassa era stata tenuta per alcuni giorni appesa al soffitto in una stanza fredda.
            Il maiale veniva allevato sin da piccolo o comprato alla fiera di S. Celestino o S. Michele, a Settembre. Erano apprezzate le varietà grasse come la perugina che fornivano molto lardo, di largo consumo in carenza di olio d’oliva prodotto in quantità limitata a Bonefro. “Quest’ fa quatt detr’  d’ lard’” si vantava il padrone del maiale soprattutto se doveva venderlo: chi poteva ne cresceva uno in più da vendere. Il lardo fritto ( u cigu’l’) era condimento e companatico.
            Non ci si affezionava al maiale né agli animali: erano semplicemente una  fonte alimentare o di piccolo guadagno oppure un aiuto nei lavori dei campi. Uccidere il maiale o gli animali da cortile non era un problema. Nemmeno farlo con metodi molto dolorosi, per far fuoriuscire tutto il sangue dalle carni. Ricordo ancora le donne che infilavano  forbici nella gola dei polli e ne tagliuzzavano lingua e gola con assoluta indifferenza procurando una morte lenta e terribile. Scannare il maiale richiedeva perizia: bisognava tagliare con lo scannatoio l’aorta affinché il dissanguamento fosse rapido e totale.
            Il maiale è molto intelligente. Inspiegabilmente, nel giorno della sua fine diventava sospettoso e irrequieto. Si guardava intorno, grugniva, rifiutava di seguire il padrone che gli faceva risuonare in un piatto il granturco per sedurlo come il pifferaio. Bisognava arpionarlo alla gola con un lungo uncino di ferro ( u chiapp’) per costringerlo a seguire il padrone, quasi presentisse il momento del sacrificio. Acciuffato alle gambe, alle orecchie, alla coda, veniva messo a forza su una tavola appoggiata a una tinozza rovesciata, davanti casa mentre inutilmente risuonavano i suoi disperati grugniti.  Tenuto da più persone robuste, urlava inutilmente il suo dolore. Appena morto veniva rasato ammorbidendo i peli con acqua bollente portata dalle donne e dai ragazzi. Era frequente a Gennaio vedere scorrere acqua rossastra lungo i bordi della strada. A volte il maiale sembrava morto ma era soltanto svenuto: si riprendeva agitandosi. Il sangue veniva raccolto in una bacinella e poi bollito. Ripassato in padella con olio aglio e peperoncino, era molto apprezzato. Era anche usato, liquido, per una specie di marmellata con mosto cotto e noci:  a ndos’. Venivano recuperate anche le setole per farne ottime spazzole. Del maiale solo le unghie venivano buttate. Ripulito e lavato veniva portato in casa di solito disteso su una scala a pioli e appeso al soffitto a testa in giù , infilando i forti tendini delle zampe posteriori in  un robusto asse di legno curvo ( u vammugghier’).  Un esperto lo apriva longitudinalmente ed asportava i visceri, anch’essi usati in vario modo. I budelli servivano per gli insaccati; alcuni- quelli del grosso intestino- conditi con varie spezie e messi ad essiccare, venivano adoperati successivamente come ottimo condimento ( i’ nnogl’) ; anche il mesentere veniva trattato con spezie ed essiccato per  poi essere usato durante l’anno come condimento ( u ndriggh’). Era indispensabile per un piatto tipico: ciuf’l’ e tann d’ rape. La vescica diventava contenitore della sugna. Col fegato si preparava una particolare salsiccia. Il cervello veniva coperto con carta gialla per alimenti e cotto sott’ a senisc’, cioè  sotto la brace.
            Il giorno dell’uccisione del maiale era piccola festa riservata agli amici  intimi. Dopo alcuni giorni si procedeva a sezionare il maiale ( r'zlà u purcell') e preparare tutto ciò che veniva conservato.
            Il cerimoniale della lavorazione delle carni di maiale oltrepassava il significato pratico. Era motivo di incontro con gli amici più cari e con qualche parente. Non mancava un compare particolarmente stimato che era stato testimone di nozze o aveva battezzato qualche figlio. Questi inviti erano reciproci e rafforzavano i legami di amicizia. Non accettare l’invito senza gravi motivi poteva essere ritenuta un’offesa. Il bonefrano era molto suscettibile e molto attento alle forme. Si lavorava in genere in cucina. Al centro uno o due tavoli con il piano allungato. Donne e uomini si dividevano i compiti ma senza schematizzazioni eccessive. L’uomo preparava il lardo sagomandolo e salandolo, la ventresca, eventualmente il prosciutto. Le donne insaccavano i salumi. La carne da salsiccia era ripulita dei tendini e di una parte del grasso. Ognuno aveva le sue preferenze: più grasso permetteva una maggior quantità di salsiccia anche se di minore qualità. A parte veniva preparata la salsiccia molto grassa per il condimento. Successivamente veniva tagliata , condita con sale, pepe o peperoncino e semi di finocchio e infilata nei budelli con un piccolo imbuto. Erano diffuse anche le macchinette che permettevano la triturazione della carne e il riempimento dei budelli più rapidamente. I più raffinati preferivano il taglio a mano e l’imbuto. La soppressata era preparata con carne più scelta.  Pochi preparavano il prosciutto che era un lusso; quella carne permetteva di avere  più salsiccia indispensabile in particolare al tempo della mietitura: non bisognava privare i mietitori del cannell’ da’ saucicc’. Le ossa spolpate erano fatte bollire; se ne staccavano i pezzetti cotti per preparare la gelatina: nelle scodelle si ricoprivano i piccoli pezzi di carne bollita con la gelatina ricavata dalla ebollizione delle ossa  aromatizzata con l’aceto. Sulla superficie erano depositate foglie di alloro e buccia di arancia.
           Il lavoro era leggero, l’atmosfera tranquilla. Si poteva parlare, ridere, fare pettegolezzi, dire qualche battuta. Mai oltre i limiti della decenza: c’erano le donne. In genere i lavori leggeri o le attese permettevano questi scambi molto utili per rafforzare i legami di amicizia. I ragazzi stavano ad ascoltare quasi ignorati dai grandi salvo che per un comando: va a comprare il sale che non basta, va a comprare il tabacco. Ma i ragazzi partecipavano alla festa , anzi erano i più entusiasti.. Aiutavano per quanto era possibile, poi aspettavano che la carne per la salsiccia fosse condita e provata cuocendola nel tegame. Apprezzavano anche qualche piccola striscia di carne ( na zerlengh’) arrostita sulla brace. Sapevano anche che durante l’essiccagione il padre avrebbe preso qualche pezzo ancora fresco e lo avrebbe arrostito ( bisognava far assaggiare ogni cibo ai piccoli: s’nnò perd’n u’ crisc’). I salami venivano appesi a una lunga pertica per l’essiccagione che doveva avvenire con attenzione dosando caldo e freddo. Una volta essiccata la salsiccia sarebbe stata tagliata in piccoli pezzi ( i chènnéll ) e conservata nella sugna- più raramente nell’olio, a quei tempi- in recipienti di creta smaltata ( a cantr’llucc’), scartando la parte ricurva ( i chi’chetor’) che veniva usata senza conservare.

            Con la fine della cerimonia del maiale è finita un’occasione – una delle tante-  per stare insieme. Piccoli riti, piccole tradizioni che le necessità dei tempi moderni hanno abolito.

Natale 2008  

 

 

Nicola Picchione